Lazzaro Felice
Titolo: Lazzaro Felice |
Trama:
Lazzaro è un giovane contadino dall’animo gentile che vive e lavora all’Inviolata, un podere di campagna in cui si coltiva tabacco. Un giorno stringe amicizia con Tancredi, figlio della marchesa che controlla lui e gli altri mezzadri. Dopo un brusco allontanamento tra i due e un “Grande Inganno” di mezzo, Lazzaro si rimette alla ricerca del suo amico in una realtà metropolitana che si rivelerà più dura e violenta di quella rurale passata.
Commento:
Terzo film della regista Alice Rohrwacher, manifesto di una carriera che procede per rinnovate immagini di libertà, Lazzaro Felice mette in scena, con strabiliante leggerezza e umiltà, il dramma della modernità in rapporto al tempo “che è stato” e che il nuovo continuamente “ri-acconcia” – come nell’omonima canzone di Pino Daniele dalla quale il film ricava il suo titolo. Seppur velatamente, la narrazione della regista, che a tratti riecheggia una “nostalgia del sacro” tipicamente pasoliniana, prende forma attraverso due luoghi principali che, distinguendo la prima e la seconda parte del film, divengono insieme archetipi di due visioni opposte. Il primo è il paesaggio, occupato dal podere dell’Inviolata, bucolico e ancestrale, in cui il tempo della vita coincide con il tempo del lavoro o, piuttosto, con il tempo “del servizio” alla marchesa e ai suoi voleri. Il secondo è il paesaggio metropolitano, caratterizzato dal grigiore dello smog e dal caos generato dai veicoli della modernità. I due luoghi, infatti, nella loro combinazione e rappresentazione prefigurano due modi di percezione del tempo – uno “lento” e uno “accelerato” – che matura all’ammodernarsi dei modi di produzione. A fare da ponte alle due immagini di vita vi è Lazzaro, giovane protagonista anacronistico del film che, come una figura divina, trascende il tempo e lo spazio, rimanendo indistinguibile nella sua purezza. Egli, infatti, per nobiltà di cuore e la leggerezza tipica di un’ingenuità mitica e fanciullesca, si fa personificazione del Bene ideale che, nella sua messa a confronto con la realtà metropolitana, ne svela l’intrinseca corruzione. Corrotta ma, ancora di più, corrosa, pare, allora, l’umanità “nuova” che il film vuole denunciare. Si tratta di una corrosione della “natura umana” che aumenta all’aumentare del lavoro, della produzione e dei consumi e nella quale, continuamente, dilagano povertà e disuguaglianze. Ancora una volta, però, Lazzaro si dimostra incorruttibile da questo – deteriorante – tempo scandito dal lavoro, resistendo alle brutalità dell’uomo moderno fino a fare la fine del “povero scemo”, avendo osato rivelare un altro “Grande Inganno”: il mito del progresso antropocentrico.
Scheda a cura di Gaia Perenno.